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Società/ La violenza diventa un metodo: prevederlo non era difficile

Le notizie di cronaca che continuano ad arrivare dalla città ci obbligano a continuare quel percorso di analisi profonda dei fenomeni che turbano e frammentano il nostro senso di sicurezza. In particolar modo, non possiamo non soffermarci sulle modalità con cui il crimine, organizzato e non, esprime la sua presenza sul territorio con gesti eclatanti che apprendiamo oramai quasi settimanalmente

Le notizie di cronaca che continuano ad arrivare dalla città ci obbligano a continuare quel percorso di analisi profonda dei fenomeni che turbano e frammentano il nostro senso di sicurezza. In particolar modo, non possiamo non soffermarci sulle modalità con cui il crimine, organizzato e non, esprime la sua presenza sul territorio con gesti eclatanti che apprendiamo oramai quasi settimanalmente.

Già nelle rubriche precedenti abbiamo parlato di condotte devianti, dell’esiguo materiale culturale presente nella nostra comunità e di tutto un insieme di fattori che si configurano come variabili sensibili al degrado sociale della città. Quando si parla di degrado e povertà, concettualmente, si crea il collegamento spontaneo con il substrato criminale, capace di emettere comportamenti violenti per perseguire i propri scopi.

I fenomeni estorsivi, le rapine quasi quotidiane, le macchine incendiate ad esponenti politici ed a cittadini normali, sono tutti episodi in cui si esplica la psiche criminale, pronta a qualunque cosa pur di arrivare all’effimera soddisfazione momentanea, causando però forti sofferenze al tessuto sociale della comunità. Entrando nell’ambito psicologico, si tende a differenziare l’aggressività dalla violenza pura. I termini potrebbero assomigliare a due facce della stessa medaglia, ma non è così.

L’aggressività è un comportamento che può essere biologicamente adattativo se programmato ad attaccare o a fuggire, quando vengono minacciati interessi vitali. Di diversa origine è l’aggressività distruttiva, maligna, appartenente specificatamente alla specie umana, che non ha alcuno scopo, se non quello di soddisfare un profondo sadismo.

Lo psicanalista Jean Bergeret fa una netta distinzione tra un soggetto aggressivo ed uno violento: il primo è sempre potenzialmente pericoloso, mosso dal piacere del nuocere, il secondo è una diretta evoluzione del primo e si attiva solo quando viene stimolato o attaccato. Quindi, i processi violenti possono esser quasi sempre previsti dal momento in cui si instaurano contatti e rapporti di varia natura con individui dall’indole aggressiva.

Ovviamente, l’argomento è ben più articolato rispetto a quello esaminato in questo articolo: la cronaca cita spesso la violenza non finalizzata negli stadi, oppure i casi di knockout game presenti in America, che rimandano però a spiegazioni ben più generali rispetto a quelli che stiamo discutendo basandoci sulla cronaca locale.

Ma cosa spinge l’uomo ad emettere questi comportamenti? Quali substrati neurologici sono implicati nell’esecuzione di un atto violento? Semplificando il tutto, possiamo tranquillamente affermare che ogni nostra azione è conseguenza di due processi: 

- processo emotivo: comprende le reazioni di lotta e fuga, ricerca di cibo, sessualità e relazioni sociali, mediato dalle zone limbiche;

- processo cognitivo, comprende le funzioni più complesse, pensiero, linguaggio, ragionamento e immaginazione, mediato dalla corteccia al di sopra del lobo limbico.

Quando ciascuno di noi riceve un piccolo torto, si innescano in automatico le componenti limbiche (da cui nascono le emozioni) che, nella loro esplosività irrazionale, verranno successivamente mediate dalle funzioni corticali che incanaleranno la risposta comportamentale in qualcosa di costruttivo, tendente a marginalizzare il conflitto con modalità evolute e tendenti alla sopravvivenza del nostro organismo.

La mente criminale, violenta, non modula bene questo circuito e le cause sono le più svariate: dalle anomalie dei lobi parietali, alle forme epilettiche amigdaliche, sino ad alterazioni dei livelli della serotonina un neurotrasmettitore implicato in numerose attività quotidiane. Alcune volte queste alterazioni possono essere innate ed esplodere se entrano a contatto con fattori sociali scatenanti.

Il contesto culturale d’appartenenza, le norme e i valori appresi durante l’infanzia e l’adolescenza, l’assunzione di sostanze psicotrope possono fortemente influenzare una psiche in formazione. In effetti, tutte le ricerche convergono sul fatto che al variare dei gradi cultura cambiano anche i comportamenti violenti, potendo sia aumentare che scomparire.

La risoluzione della violenza non è semplice: essa, come la criminalità, è il risveglio di istinti selvaggi e primitivi, che si evidenziano con maggiore gravità, quando trovano i giusti interlocutori con cui potersi esprimere e sviluppare. Ovviamente dal momento in cui un soggetto violento vede negato un presunto diritto, o riceve un’offesa, si sente legittimato ad agire come meglio crede per ristabilire il proprio senso di giustizia.

La storia del genere umano è fortemente segnata dai comportamenti violenti, e le notizie che apprendiamo dai mezzi d’informazione sembrano l’ultimo baluardo di un passato storico e culturale che vorremmo dimenticare definitivamente. Il senso di giustizia che desideriamo è alla nostra portata, basta esser convinti sul punto d’arrivo e sui valori fondamentali da perseguire: fiducia, comprensione reciproca e rispetto. Solo quando li avremo assorbiti consciamente, potremo guardarci alle spalle con orgoglio e senza alcun rimpianto.

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