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Cronaca

Nega un condono 24 anni e sei mesi dopo la domanda. E il Tar boccia il Comune

BRINDISI – Sono occorsi quasi ventuno anni all’Ufficio tecnico del Comune di Brindisi per rispondere ad una domanda di condono edilizio. Per l’esattezza venti anni e sei mesi perché il funzionario addetto comunicasse alla persona interessata che la sua domanda di condono, nonostante avesse pagato gli oneri e fatto tutto come previsto dalla legge, non poteva essere accolta. La Fondazione Casa Museo Ribezzi-Petrosillo di Latiano, quando si è vista arrivare questo diniego è trasecolata. Erano passati tanti di quegli anni da avere dimenticato anche di cosa si trattasse. Hanno ricostruito a fatica quello che era accaduto, si sono rivolti al Tar ed hanno avuto ragione.

BRINDISI – Sono occorsi quasi ventuno anni all’Ufficio tecnico del Comune di Brindisi per rispondere ad una domanda di condono edilizio. Per l’esattezza venti anni e sei mesi perché il funzionario addetto comunicasse alla persona interessata che la sua domanda di condono, nonostante avesse pagato gli oneri e fatto tutto come previsto dalla legge, non poteva essere accolta. La Fondazione Casa Museo Ribezzi-Petrosillo di Latiano, quando si è vista arrivare questo diniego è trasecolata. Erano passati tanti di quegli anni da avere dimenticato anche di cosa si trattasse. Hanno ricostruito a fatica quello che era accaduto, si sono rivolti al Tar ed hanno avuto ragione.

I legali dell’epoca della Fondazione, trascorsi i ventiquattro mesi previsti dalla legge perché scattasse il cosiddetto “silenzio-accoglimento”, avevano ritenuto che la destinazione d’uso di due locali a pianoterra di una palazzina a ridosso della zona Centro del capoluogo, potesse essere cambiata da garage in attività commerciale e studio professionale. Questo accadeva nel 1987. Esattamente il 27 dicembre del 1987. Due anni prima, il 27 dicembre del 1985, la signora Anna Voghera, per conto della Fondazione aveva presentato istanza di condono per il cambio di destinazione d’uso dei due locali che ricoprono una superficie complessiva di 57 metri quadrati. Alla domanda era allegato il bollettino del versamento effettuato per la sanatoria ed aveva proceduto all’accatastamento dei locali sulla base della nuova destinazione d’uso.

La legge parla chiaro. Il condono non è possibile se vi è un vizio di inedificabilità nell’area. E cioè si deve trattare di una costruzione abusiva realizzata in una zona in cui non si può per nessun motivo costruire. Non era questo il caso. Perché la violazione riguardava una norma urbanistica, che rientrava nelle ipotesi di sanatoria. E’ ciò che ritennero i legali della Fondazione. Ma passarono i ventiquattro mesi e non arrivò nessuna risposta. Voleva dire che tutto era a posto.

Ma non era così. La risposta dal Comune di Brindisi arriva. Dopo venti anni e sei mesi, ma arriva. Il dirigente dell’Ufficio tecnico, ripartizione Urbanistica e Assetto del territorio, il 3 maggio del 2006 respinge la domanda di condono. E la notifica agli sbalorditi aventi causa viene fatta il 9 dello stesso mese. Il ricorso al Tar di Lecce per conto della Fondazione viene depositato il 29 agosto del 2006 dall’avvocato Francesco Damasco. Il Comune si costituisce attraverso gli avvocati Emanuela Guarino e Francesco Trane. Damasco chiede l’annullamento del provvedimento emesso dall’Ufficio tecnico. Ieri mattina è stata depositata in cancelleria la decisione della Terza sezione che ha accolto le tesi di Damasco: violazione e falsa applicazione della legge 47/85 sul condono edilizio; erroneità dei presupposti; intervenuto “silenzio-accoglimento”.

I giudici, entrando nel merito, hanno fatto notare che “l’art. 35, comma 16, della legge n. 47 del 1985, prevede che il sindaco, esaminata la domanda di concessione o di autorizzazione, previo i necessari accertamenti, invita ove lo ritenga necessario, l’interessato a produrre ulteriore documentazione; quindi determina in via definitiva l’importo dell’oblazione e rilascia, salvo in ogni caso il disposto dell’art. 37, la concessione o l’autorizzazione in sanatoria contestualmente all’esibizione da parte dell’interessato della ricevuta di versamento all’erario delle somme a conguaglio, nonché dell’avvenuta presentazione all’Ute della documentazione necessaria ai fini dell’accatastamento”.

Quindi il giudice che se trascorsi ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, senza che dalla pubblica amministrazione sia arrivata nessuna contestazione, “la domanda si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’Ute della documentazione necessaria all’accatastamento”. Quindi aggiunge: “Trascorsi trentasei mesi si prescrive l’eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti”.

E conclude affossando l’opposizione del Comune: “Dalla disamina della normativa emerge chiaramente che l’amministrazione comunale deve pronunciarsi sulla domanda di condono nel termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della stessa, ove il richiedente abbia provveduto al versamento integrale dell’oblazione come autodetermina ed alla produzione, a corredo della domanda, di tutta la documentazione richiesta dalla norma. Difatti, il silenzio serbato dall’autorità comunale nel predetto arco temporale costituisce, per espressa previsione legislativa, un comportamento significativo avente valore di accoglimento della domanda di sanatoria, anche perché la formazione del silenzio-accoglimento è esclusa solo in caso di presentazione di una domanda dolosamente infedele, o presentata oltre il termine di legge oppure nel caso in cui le opere contrastino con vincoli di inedificabilità pre-esistenti all’esecuzione delle opere”.

Invece il funzionario comunale, vent’anni dopo, quando chissà da dove è spuntata fuori questa pratica, ingiallita dagli anni, ha respinto la domanda  sul presupposto che “i locali oggetto dell’istanza di sanatoria risultano vincolati a parcheggio e come tali costituiscono pertinenza del fabbricato” e dunque non può essere modificata la destinazione d’uso. E’ la tesi del Comune che il Tar ha respinto. Tesi più che legittima, ma venti anni e mezzo per mettere nero su bianco sono forse un po’ troppi anche per una burocrazia che in Italia non è certo celere.

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