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L'esplosione della corazzata "Brin", mistero all'italiana di 95 anni fa

BRINDISI - Accadeva il 27 settembre, ma del 1915, quando la città di Brindisi, appena sveglia, scaldata da un sole luminoso in una giornata tersa, si apprestava a vivere una quotidianità come tante altre; ciascuno impegnato nelle proprie occupazioni. Al porto c’erano diverse navi ormeggiate, con i marinai occupati a svolgere con zelo le loro abituali mansioni. Quel lunedì erano tornati a bordo della imponente ammiraglia italiana “Benedetto Brin” anche quegli ufficiali che, godendo di una breve licenza, avevano dormito “a terra”.

BRINDISI - Accadeva il 27 settembre, ma del 1915, quando la città di Brindisi, appena sveglia, scaldata da un sole luminoso in una giornata tersa, si apprestava a vivere una quotidianità come tante altre; ciascuno impegnato nelle proprie occupazioni. Al porto c’erano diverse navi ormeggiate, con i marinai occupati a svolgere con zelo le loro abituali mansioni. Quel lunedì erano tornati a bordo della imponente ammiraglia italiana “Benedetto Brin” anche quegli ufficiali che, godendo di una breve licenza, avevano dormito “a terra”.

Sulla banchina brindisina del lungomare Regina Margherita si erano radunate un buon numero di persone, per assistere al suggestivo rito dell’alzabandiera, considerato dai più un appuntamento da non perdere, per l’emozione che lo spettacolo era in grado di suscitare. Nel porto c’erano navi francesi, inglesi ed italiane i cui equipaggi, dopo l’esecuzione dei propri inni nazionali che avveniva alle ore otto in punto, si apprestavano ad ascoltare una vivace marcetta capace d’infondere allegria.

Proprio mentre si attaccavano quelle briose note avvenne il disastro che seminò morte e disperazione tra l’equipaggio della “Benedetto Brin”; ci fu un boato terrificante che fece tremare l’intera città: la nave era esplosa e la tremenda onda d’urto aveva proiettato in alto, per molti metri, poveri corpi straziati di innocenti marinai. Il bilancio in vite umane fu terribile, il numero delle vittime fu di 456 uomini: 433 marinai e 23 ufficiali.

Del contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin si trovarono solo alcune parti del corpo che furono pietosamente composte. Perì con lui anche il comandante della nave, capitano di vascello Gino Fara Forni, cinquantaquattrenne novarese. I feriti furono sistemati, dalla “macchina dei soccorsi” che funzionò egregiamente, nel Grande Albergo Internazionale che, per l’occasione, funse da ospedale militare.

A Brindisi affluirono i parenti dei militari protagonisti della tragedia; la disperazione per la perdita improvvisa dei loro congiunti fu immensa, specialmente quando alcune famiglie si resero conto che mai avrebbero potuto piangere e pregare sulla tomba dei loro cari. Era periodo di guerra e non appena ebbe luogo la deflagrazione, il vice ammiraglio Ettore Presbitero, comandante in capo della piazzaforte marittima di Brindisi, fece uscire subito alcuni mezzi antisommergibili, per dare la caccia ad eventuali sottomarini in agguato nelle nostre acque, poiché si pensò subito al compimento di un’incursione nemica.

La caccia risultò vana, perché ogni varco sottomarino di accesso al porto brindisino era completamente ostruito da una rete metallica tenuta tesa da galleggianti. Rete che fu accuratamente ispezionata da due espertissimi palombari che (testimonianza scritta a verbale) “ne accertarono l’assoluta integrità”.

Dopo tale, capillare, controllo, gli stati maggiori della Marina cominciarono a capire che l’ipotesi “attentato” cominciava a vacillare, allontanandosi; al contrario, prendeva corpo la non remota possibilità di un’autocombustione avvenuta nella grande stiva adibita a deposito di munizioni. Tuttavia, al governo italiano, in quel particolare periodo storico, fece comodo diffondere la notizia che la corazzata “Brin” fosse stata distrutta a tradimento da un siluro nemico che aveva centrato la “santabarbara”.

Ma non erano in pochi coloro, che di cose di mare se ne intendevano, che sussurravano che la nave era saltata per aria, perché il calore della sala motori, troppo vicina al locale della “santabarbara”, aveva procurato la combustione della “balistite”, un composto micidiale di nitroglicerina e cotone collodio altamente infiammabile che, con una tremenda reazione a catena, aveva innescato l’incendio e fatto scoppiare tutti gli altri esplosivi depositati nel locale della sala munizioni e gas.

Ad imbrogliare ancor di più le carte ci furono poi tante illazioni, anche suggestive, ma difficilmente credibili e praticabili, su una nave da guerra che per la sua natura era minuziosamente controllata 24 ore su ventiquattro. Le ipotesi, comunque, per la loro debolezza di tesi, anche se procurarono discussioni, furono accantonate.

Furono invece aperte, per buona misura, ben quattro inchieste: dal comando della piazzaforte di Brindisi, dal comando del Dipartimento, dal comando di squadra e dal governo che, in definitiva, chiarirono poco quanto niente. Fu escluso il dolo, furono esclusi il sabotaggio e l’avaria occasionale; si ventilò, con toni smorzati, la paternità dell’attentato perpetrato dagli odiati nemici austriaci e tedeschi, forti di un attivo controspionaggio.

Tuttavia, le risultanze delle indagini non furono rese pubbliche, si disse: “per non dare vantaggi al nemico”. Le inchieste governative e militari furono reticenti, dissero e, ancor di più, non dissero, anche se nelle alte sfere del governo e della Marina era chiara l’idea della disgraziata ubicazione, sulla “Benedetto Brin”, della sala dei motori e macchine appena adiacente al locale dove erano tenuti esplosivi, munizioni e gas, locale comunemente chiamato “santabarbara”, per giunta scarsamente ventilato e refrigerato.

Brindisi partecipò con tutta se stessa, e con la generosità che in queste occasioni è capace di dare, al luttuoso evento. Il sindaco, dottor Giuseppe Simone, indisse tre giorni di lutto cittadino. il consiglio comunale di Brindisi, il 24 giugno 1916, deliberò di intitolare la strada del rione Casale, che ancora collega l’ex Collegio Navale allo stadio comunale “Fanuzzi” e, di seguito, all’aeroporto militare, alla “Benedetto Brin” e ai suoi caduti.

Quanto scritto su vari libri, insieme a numerosi articoli giornalistici, a due vibranti lettere manoscritte, testimonianza degli storici: canonico don Pasquale Camassa e avvocato Giuseppe Roma e ad altre carte d’archivio ben fascicolate sono le risorse a cui attingere per sapere, perché questa tragedia accaduta a Brindisi, giusto 95 anni orsono, che segnò tante vittime, rimanga una pagina di storia appartenente ad una Città che non vuol dimenticare, anche quando la sua storia è drammatica, tragica e luttuosa.

Sarebbe auspicabile che, in tal senso, sindaco e presidente della Provincia, dando fondo alla loro sensibilità, potessero trovare tempo, modo e opportunità per dare una testimonianza adeguata e ricorrente alla indimenticabile data del 27 settembre e alle sue innocenti 456 vittime perite nel porto di Brindisi sulla nave ammiraglia della Regia Marina Italiana “Benedetto Brin”.

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