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Lunedì, 29 Aprile 2024
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Tamponi rapidi, test molecolari e la loro efficacia

La pandemia ci ha fatto conoscere tanti aspetti sino ad allora sconosciuti lasciandoli però ugualmente un po’ sul vago. Così avviene quando si parla di test diagnostici e dei suoi esiti

Chi ne ha frequentato i luoghi più tipici riconosce nell’Università di Padova la sede in cui vige libertà di espressione al pensiero ed all’opinione, così come per altro ben riassunto nel suo motto: Universa Universis Patavina Libertas. Avvenne anche nel momento più difficile per la laicità del sapere, allorquando la bolla papale, In Sacrosancta del 1564, prescrisse a chi era ammesso all’esame di laurea una professione di fede e di “obbedienza al pontefice romano” che non poteva che risultare “abhorita dalla nation alemana, anglesa, greca et altre”, vale a dire agli scolari ed ai docenti che professavano l’eterodossia.   Come lo Studio difese la sua libertà, sarebbe troppo lungo qui raccontare, tuttavia se ne può trovare esemplificazione in Galileo, il quale poté compiervi i suoi studi e trasmetterli agli allievi, senza vincoli di nessun genere, tanto da fargli affermare con piena convinzione d’avere consumato all’Università di Padova “li diciotto anni migliori di tutta la mia età”.

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Non è pertanto a caso che Andrea Crisanti, docente dell’ateneo patavino, abbia chiamato in causa l’illustre accademico del Seicento, ora che la Procura di Padova ha aperto a suo carico un fascicolo per diffamazione, su esposto del direttore generale di Azienda Zero della Regione del Veneto. La questione è nota: le critiche del professor Crisanti all’uso generalizzato dei test rapidi avrebbe gettato discredito sulla sanità veneta. Meno noti i contenuti dell’articolo di Crisanti e del perché questi ponga il tema dei test rapidi come possibile fonte di ulteriore disagio d’aggiungersi a quello già creato dalla pandemia. Per questo — semplificando al massimo — cercherò d’affrontare l’argomento al solo scopo di fornire le conoscenze minime, vale a dire quelle strettamente utili ad ascoltare le discussioni senza necessariamente pendere dalle labbra altrui.

La pandemia ci ha fatto conoscere tanti aspetti sino ad allora sconosciuti lasciandoli però ugualmente un po’ sul vago. Così avviene quando si parla di test diagnostici e dei suoi esiti. Sappiamo che il test diagnostico è fatto per valutare se qualcuno ha contratto o meno l’infezione e che i suoi esiti sono “positivo”, in presenza della malattia, e “negativo”, in sua assenza.
Conosciamo anche che, inizialmente, l’unico test fatto per la diagnosi dell’infezione da coronavirus era il tampone molecolare e che, in seguito, hanno preso piede anche i test antigenici, chiamati anche “rapidi”. Il perché di questa modificata strategia è pur essa conosciuta: il test molecolare prevede alti costi, molto tempo e strumentazioni apposite per dare il suo esito mentre quelli rapidi — come dice lo stesso nome — hanno la caratteristica d’essere eseguiti in pochi minuti, oltre che costare molto meno. Tuttavia, per quello che qui più interessa, l’aspetto basilare che contraddistingue gli esami molecolari dagli antigenici è la diversa affidabilità, vale a dire la differente capacità di rilevare esattamente la presenza o l’assenza della malattia del paziente sottoposto al test. 

Ora nessun test dà risultati certi al 100% e, pertanto, non ne esistono in commercio in grado di identificare in maniera esatta sia tutti i malati, sia tutti i sani. Ognuno — e questo a prescindere dalla patologia da testare — garantisce livelli di affidabilità legata a due aspetti, ovverosia le capacità di evidenziare positivo chi ha contratto la malattia e di classificare negativo chi invece ne è restato esente. Queste due caratteristiche, intrinseche a ciascun test, sono chiamate rispettivamente sensibilità e specificità. 
Più in particolare si definisce sensibilità di un esame diagnostico la capacità di identificare in maniera corretta i soggetti affetti dalla malattia che si sta ricercando. In altre parole la sensibilità indica la percentuale degli ammalati rilevati per tali e, di conseguenza, un’alta sensibilità dà un’alta probabilità che un soggetto malato risulti positivo al test. Al tempo stesso, un’alta sensibilità garantisce una bassa probabilità che un soggetto positivo risulti negativo al test e quindi rende minima la probabilità di generare dei falsi negativi, locuzione questa con cui si indicano gli ammalati che il test trova invece sani. È questa una questione di estrema importante in quanto, i positivi che non sono identificati per tali, sono il veicolo privilegiato usato dal virus per diffondersi. All’opposto un test con bassa sensibilità, avendo scarsa possibilità di cogliere la malattia quando presente, produce molti falsi negativi con effetti sanitari catastrofici.

Si definisce, invece, specificità la capacità d’un esame diagnostico di rilevare i soggetti sani, ovverosia che non presentano la malattia. In definitiva rappresenta la percentuale di persone sane identificati in maniera corretta; di conseguenza un’alta specificità dà un’alta probabilità che chi è sano risulti negativo al test. Il che comporta pure che è bassa la probabilità che un soggetto sano risulti positivo al test e che, in conclusione, è bassa la probabilità di avere falsi positivi, vale a dire persone sane che il test passa per  malate.

In conclusione, dando per scontata una corretta procedura di esecuzione dell’esame, un’alta sensibilità ci garantisce che chi è ammalato risulti positivo, e non sfugga invece al vaglio passando per negativo (in altri termini, rende minimo il rischio di avere falsi negativi); un’alta specificità che chi è sano risulti al test negativo, e che non sia classificato, invece, come malato (pertanto rende minimo il rischio di avere falsi positivi). Ma la sensibilità e la specificità non rispondono alla domanda in questi casi di maggiore interesse che, all’atto pratico, è la seguente: quanta probabilità ha il test di dare un esito corretto? Che, dicendola in altro modo, sarebbe: se il test è positivo, quant’è la probabilità che la persona sia per davvero ammalata? Se invece il test è negativo, quant’è la probabilità che sia davvero sana? E qui entra in campo la statistica, e tutta una serie di formule con cui calcolare simili probabilità.

Per ovvi motivi, semplifico e vado piuttosto alle conclusioni riportando che le risposte ai quesiti posti si ottengono calcolando i valori predittivi positivi (Vpp) e quelli predittivi negativi (Vpn), in diversi contesti di prevalenza della malattia. Le probabilità cercate dipendono infatti dalle caratteristiche specifiche dei test ma anche dai contesti in cui si opera. Facciamo conto di essere a scuola e che, ad ogni inizio settimana, si faccia uno screening per far sì che non entrino in classe allievi ammalati. Ebbene, in una condizione come questa in cui la malattia è poco presente, e quindi di “bassa prevalenza”, calcolando i valori predittivi si trovano Vpp di non grossa entità ed un Vpn molto alto. Se invece sempre in ambito scolastico s’è rilevato un focolaio (quindi in un contesto di alta prevalenza della malattia) e si fa il tracciamento per isolare chi ha contratto la malattia, si troverà un Vpp alto ed un Vpn più basso. In definitiva il valore predittivo positivo Vpp aumenta con l’aumentare della prevalenza della malattia, mentre il valore predittivo negativo Vpn aumenta con il diminuire della prevalenza della malattia. Questo in parole povere significa che, nel primo caso, il test ha un’alta probabilità di trovare negativo chi è sano ma c’è la possibilità di avere dei falsi positivi; nel secondo caso, c’è invece il rischio opposto: quello di trovare negativo chi invece è malato e, quindi, di avere falsi negativi. 

Soffermandoci sull’epidemia che ci tormenta, tali rischi diventano minimi quando il test diagnostico utilizzato è il molecolare che dà più affidabilità, avendo in genere una sensibilità ≥ 95 ed una specificità ≥ 98, ma aumentano usando i test rapidi che hanno prestazioni peggiori con valori di sensibilità e specificità più bassi. Per questo il test molecolare è considerato il gold standard, l’esame più accurato disponibile, e rappresenta un termine di paragone per tutti gli altri. Tuttavia, per i limiti già evidenziati, da qualche mese a questa parte, le autorità hanno concesso la possibilità di surrogarlo in specifici contesti con i test antigenici, purché in possesso di determinate caratteristiche. Sicché i test rapidi da utilizzarsi devono essere di norma di ultima generazione ed avere precisi requisiti, così stabiliti: sensibilità ≥ 80 (e, in certi occasioni,  ≥ 90); specificità ≥ 95. 

Il problema è però che tali valori vengono di solito forniti dai produttori dei test — alla maniera un po’ di chiedere all’oste com’è il suo vino — e, solo raramente, sono reperibili nelle riviste scientifiche nel caso siano stati fatti studi di validazione. Pertanto, oltre ad approvarne l’uso, sarebbe stato forse prudente avviare studi di convalida, anche per indirizzare le scelte. Non va taciuto che si possono prendere degli accorgimenti statistici per minimizzare i rischi. Ad esempio, nel caso di possibili falsi positivi, appurando la positività tramite un successivo tampone molecolare o, nel caso di falsi negativi, facendo ripetere entro un paio di giorni l’esame diagnostico per avere una conferma della negatività. Ma, considerata l’importanza dell’aspetto diagnostico, sarebbe stato meglio risolvere la questione a monte, rendendosi direttamente conto dell’affidabilità dei test antigenici di possibile uso.

All’atto pratico è quella verifica che ha fatto il professor Crisanti analizzando uno specifico test, con conclusioni che paiono non troppo confortanti. Ora è vero che un lavoro deve essere pubblicato su una rivista di prestigio per entrare a far parte della letteratura scientifica, tuttavia, vista la delicatezza della situazione, una relazione fatta da un laboratorio universitario avrebbe meritato comunque quell’attenzione che sembra non ci sia invece stata. Non entro nel merito dei risultati cui è pervenuto il professor Crisanti, tuttavia c’è da ricordare che il team di Cochrane, nell’esaminare l’efficacia di due marche di test considerate le più performanti, ha evidenziato correttezze diverse, a seconda dello stato delle persone esaminate. Nelle persone con sintomi, la correttezza d’identificazione va dal 75 all’88 per cento dei casi;  negli asintomatici, dal 49 al 69 per certo dei casi. Come dire che le persone asintomatiche creano qualche problema pure ai test rapidi di maggiore affidabilità. E la presenza di sintomi o no non rappresenta l’unica variabile possibile di cui tener conto. Ci sarebbero infatti da valutare gli effetti anche dovuti, ad esempio, alle varianti.

Per finire, a semplice titolo di curiosità, si presenta la tabella riassuntiva contenente la percentuale di test antigenici fatti sul totale degli esami da ciascuna delle nostre regioni nel mese di aprile. Naturalmente non è possibile trarre nessuna indicazione di merito, non essendo noti i contesti e le modalità d’uso e, soprattutto, le caratteristiche dei tamponi rapidi usati. 

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L'andamento della pandemia in Puglia

Come usuale appendice, si fornisce un breve quadro della situazione nella nostra regione. I momenti peggiori si allontanano sempre più, anche se le quantità in gioco sono ancora troppo elevate per poter affermare che li abbiamo ormai lasciati alle nostre spalle. L’andamento di quasi tutti gli indici appaiono tuttavia in decisa fase positiva. Calano i nuovi positivi (figura 1), la cui incidenza raggiunge un valore  — 188 su 100mila abitanti — che rappresenta un minimo dagli inizi del mese di marzo. Decresce in maniera significativa pure la pressione sulle strutture sanitarie (figure 2 e 3), con percentuali di posti letto occupati da pazienti Covid-19 che toccano il 34% per le terapie intensive ed il 42% per l’area non critica. Si è pertanto ormai prossimi alle soglie critiche, che risultano fissate rispettivamente al 30% ed al 40%.  Unica entità che non diminuisce in maniera sistematica è ahimè quella dei decessi che fluttua da tempo su valori stabilmente alti.

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