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Trivelle nell’Adriatico: Regione dice no

BARI - Caccia all’oro nero. Il no della Regione Puglia contro le trivelle è stato ribadito e formalizzato. Con voto unanime, il Consiglio regionale della Puglia ha approvato nella tarda mattinata di oggi la proposta di legge di iniziativa regionale da presentare alle Camere, ai sensi dell'articolo 121 della Costituzione, dal titolo “Divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi”.

BARI - Caccia all’oro nero. Il no della Regione Puglia contro le trivelle è stato ribadito e formalizzato. Con voto unanime, il Consiglio regionale della Puglia ha approvato nella tarda mattinata di oggi la proposta di legge di iniziativa regionale da presentare alle Camere, ai sensi dell'articolo 121 della Costituzione, dal titolo “Divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi”.

Già approvata ieri all'unanimità dalla commissione per lo Sviluppo economico, la proposta di legge parte da una iniziativa dell'Ufficio di Presidenza che l'ha approvata nella seduta del dicembre dello scorso anno, facendo proprio il testo presentato dal consigliere di Sel, Michele Ventricelli. L'iniziativa legislativa che passerà all'esame delle Camere, si compone di un articolo unico al cui primo comma è prescritto il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi nelle acque del mare Adriatico prospiciente delle regioni Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia.

Il secondo comma estende il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi anche ai procedimenti autorizzati, avviati e non conclusi alla data di entrata in vigore della legge che dovrà essere approvata dalle Camere perché abbia efficacia. La proposta legislativa presentata dalla Puglia salva, fino all'esaurimento dei giacimenti, i permessi, le autorizzazioni e le concessioni già attive. “Un passo in avanti decisivo - spiega il consigliere regionale del Pd, Giovanni Epifani – che parallelamente alle decisioni della Giustizia amministrativa, consentirà di salvaguardare le nostre coste e tutte quelle che affacciano sull’Adriatico dal rischio di ulteriori ricerche di idrocarburi”.

Un successo, anche per i Comuni rivieraschi  (Brindisi, Ostuni, Fasano e Carovigno) che in coro hanno fatto ricorso alle vie giuridico amministrative per scongiurare la caccia all'oro al largo delle coste brindisine. Soltanto nei giorni scorsi la prima sezione di Lecce del Tribunale amministrativo regionale aveva accolto il ricorso presentato dalla Regione Puglia, con l'intervento ad adiuvandum dei Comuni di Carovigno e Monopoli, annullando  e bocciando il Giudizio positivo espresso nel 2009 per decreto dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio circa la compatibilità ambientale del progetto relativo alla prima fase del programma di ricerca di idrocarburi nel sottofondo marino (al largo delle coste pugliesi), presentato dalla società britannica Northern Petroleum.

Le motivazioni di fondo della proposta di legge approvata stamane, dunque, hanno radici profonde: “In tutto il mondo, nel corso degli ultimi anni, si sono verificati gravissimi incidenti che hanno interessato le piattaforme marine per la prospezione, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi, causando disastri ambientali a volte irreversibili. Non possono che allarmare, dunque, volgendo lo sguardo sull’Adriatico, gli interessi economici delle compagnie petrolifere di tutto il mondo: solo nell'area del medio-alto Adriatico sono attualmente operative circa 50 piattaforme (oltre a circa 940 pozzi per l'estrazione del gas) prevalentemente di fronte alle coste venete ed emiliane, e diverse piattaforme dì estrazione del petrolio nell'area di fronte alle coste marchigiane ed abruzzesi.

In Italia, potrebbero diventare operative a breve termine numerose altre piattaforme per l'estrazione di idrocarburi da giacimenti con profondità paragonabile a quella della piattaforma della British Petroleum. Le più recenti scoperte di giacimenti si trovano infatti a profondità superiori a 500 metri. La stessa Unione petrolifera nel 2005 ha denunciato che il Mediterraneo ha una densità di catrame pelagico sui fondali pari a 38 milligrammi per metro quadrato, seguito a distanza dal mar dei Sargassi e poi dal mar del Giappone.

In quanto ad attività proprie le piattaforme cosiddette off-shore, nella fase esplorativa e in quella estrattiva, sversano in mare un quantitativo di idrocarburi valutato nel 10% del totale dell'inquinamento marino da idrocarburi. Si tratta di fluidi e fanghi generati dalle trivellazioni e dagli scarti degli idrocarburi estratti e lavorati, che nel loro insieme risultano essere letali per la fauna marina e l'intero ecosistema dell'Adriatico. Al danno conclamato causato giornalmente dalle attività estrattive (sversamento di fanghi tossici e scarti operativi) di ogni piattaforma petrolifera, si somma l'inquinamento provocato dal transito in mare di ogni tipo di natanti e, soprattutto,delle navi-cisterna per il trasporto di idrocarburi.

“La situazione dell’Adriatico – si legge nella proposta approvata in Consiglio - è ancora più aggravata dal fatto di essere un mare chiuso e poco profondo, inadatto a smaltire le sostanze inquinanti, più simile a un grande lago e già interessato da un forte riscaldamento delle acque, da fenomeni di eutrofizzazione e inquinamento da scarichi industriali e civili apportati dalle aste fluviali che in esso confluiscono: il fiume Po, in particolare, che convoglia nell'Adriatico una quantità enorme di prodotti inquinanti. Si consideri, poi, la presenza di importanti raffinerie come quelle di Ravenna e Venezia. Ai fini dell'incidenza ambientale vengono, purtroppo, valutati singolarmente i progetti di intervento, senza tener conto dell'effetto cumulativo degli stessi, mentre il reale impatto sull'ambiente dovrebbe essere commisurato alla sommatoria delle singole attività, con l'aggiunta della crescita del rischio di catastrofe ambientale in ragione della presenza costante di ulteriori fattori di rischio (fuoriuscita di greggio dalle navi cisterna, aumento dell'afflusso di elementi inquinanti dalla terraferma)”.

Altro rischio non quantificabile è, inoltre, quello connesso a preoccupanti fenomeni di subsidenza (lento e progressivo abbassamento verticale del piano di terreno, indotto dalla minore presenza di fluidi interstiziali residui nel terreno causata, per l'appunto, dall'estrazione di petrolio e gas) che rischiano di investire tratti della costa veneta e romagnola, ma anche delle Marche e dell'Abruzzo.

Inoltre, sotto altri aspetti, l'esperienza degli ultimi anni consegna un'analisi impietosa sulle presunte "convenienze" per lo sviluppo economico in presenza di piattaforme petrolifere. L'irrilevante beneficio economico in favore delle singole regioni, derivante dall'introito di una quota minima delle royalties pagate dalle multinazionali deI petrolio, non compensa neanche minimamente i gravissimi danni sull'indotto del settore turistico, sull'esercizio della pesca, sulla qualità della vita, ma soprattutto non è neanche paragonabile ai danni irreparabili che potrebbero insorgere a seguito di un "incidente" come quello verificatosi nel Golfo del Messico.

Danni che i bilanci di molte società beneficiarie di concessioni ricadenti nel mare Adriatico non sarebbero mai in grado di risarcire, neppure in minima parte.

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