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Cronaca

"Io, sorella del killer, la mia vita e la lotta per salvare mio marito"

"Io, sorella del killer, la mia vita e la lotta per salvare mio marito"

BRINDISI - Angela ha 34 anni. E’ mamma di due figli, Luciano di 17 e Giuseppe, di 11. Il secondo nato porta il nome del padre, Giuseppe Tedesco junior. La scelta di quel nome è sua, tributo d’amore per l’uomo che non ha mai smesso di amare, da quando di anni ne aveva tredici. Malgrado l’andirivieni dal carcere di quello che sarebbe diventato suo marito, prima per contrabbando, poi per rapina a mano armata. Malgrado le corse clandestine in Montenegro, dove Tedesco scappò grazie ad un permesso-premio concesso dal tribunale di sorveglianza per consentirgli di partecipare al matrimonio della sorella. Angela lo raggiunse, gravida di otto mesi, con il primogenito stretto al fianco.

Latitanti e clandestini pure loro, in un paese straniero devastato dalla guerra. Era il 1998, e non potevano sapere che quello sarebbe stato l’inizio della fine. Angela non sapeva nemmeno, né avrebbe potuto, che il cognome ereditato dal padre Berardo sarebbe diventato un fardello insopportabile: Angela Di Emidio, per tutti, è la sorella del boss Vito, alias Bullone. Sorella del killer più sanguinario della Sacra corona unita. Ex latitante, fra i cento più pericolosi d’Italia, arrestato il 28 maggio 2001. Da allora collaboratore di giustizia, reo confesso di “diciannove, forse ventuno” omicidi. Il numero esatto delle vittime morte per sua mano o per suo ordine, Bullone non lo ricorda.

Il 12 maggio 2008 Giuseppe Tedesco viene arrestato insieme a Daniele Giglio e Pasquale Orlando sulla scorta delle accuse del cognato Vito e di una serie di intercettazioni captate nel carcere di Sulmona dove era recluso per la rapina all’ufficio postale di Torre Santa Susanna. E’ accusato del duplice omicidio di Leonzio Roselli e Giacomo Casale, uno dei delitti più efferati commessi sotto le insegne della Sacra corona unita. Era il 7 maggio 1996. Casale, detto Puffetto e Roselli erano poco più che ragazzi, nemmeno trent’anni a testa. Finirono vittime di una esecuzione atroce, picchiati a sangue, colpiti a picconate nelle gambe.

Vito Di Emidio racconta che il cognato completò l’opera saltando sulle costole delle due vittime, inneggiando alla Scu. Così pagano i colpevoli di sgarri imperdonabili. Secondo le logiche del mandante così meritavano di pagare la devozione tributata al rivale, Franco De Fazio detto Farfallone, mandante a sua volta (vero o presunto) del duplice omicidio di Nicola Santacroce e Mino Truppi, ragazzi della banda capeggiata da Di Emidio.

Tedesco è accusato anche dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere di Giuliano Maglie, un altro brindisino ammazzato con una calibro 38 in Montenegro. Il cadavere di Maglie sarebbe stato ritrovato nel 2003, sempre sulla base delle rivelazioni di Vito Di Emidio, seppellito sotto una cuccia per cani in Montenegro. Gli esiti della rogatoria internazionale disposta dalla procura brindisina sono giunti solo recentemente, il medico legale dice che quel cadavere corrisponde alla descrizione di Giuliano Maglie, detto Naca Naca, fornita dai famigliari. Sono passati undici anni dalla scomparsa. Quei poveri resti non sono mai stati restituiti alla famiglia, e non lo saranno fino agli esiti della comparazione genetica del Dna recentemente disposta dal tribunale di Brindisi, lo stesso chiamato a giudicare Tedesco e gli altri. Il processo è ancora in corso.

Tedesco rischia tre ergastoli. Come gli altri, non ha mai smesso di proclamare la propria innocenza. La moglie Angela, rinnegato il fratello, è sempre presente in aula durante le udienze del processo. E conduce, al fianco degli avvocati Vito Epifani e Alessandro Longo, una battaglia a difesa dell’innocenza del marito, nella quale non ha mai smesso di credere.

Come ha conosciuto suo marito?

Ci siamo incontrati nel ’90, 18 agosto 1990. Stavo affacciata al balcone, nella casa dei miei genitori a Sant’Elia. Di lui sapevo solo che lavorava alle sigarette. Mi guardò, io ricambiai lo sguardo. Avevo 13 anni, lui 17. Da allora, e per sempre, lui è il mio amante, il mio confidente, il mio amico. Quando mio fratello Vito ha saputo che si era fidanzato con me, era contento. Mio marito era un bravo ragazzo, uno che scherzava sempre. Faceva il contrabbandiere per necessità. Nel settembre 1992 c’è stata la nostra scinduta, come si dice a Brindisi. Siamo scappati e andati a vivere insieme, e poi ci siamo sposati il 16 novembre 1995. Al Comune. Per la chiesa stiamo aspettando. Io lo avrei sposato anche nella chiesa del carcere, tanto Dio è ovunque. Ma Giuseppe dice che lo faremo quando tornerà ad essere un uomo libero.

Chi era allora Vito Di Emidio?

Mio fratello aveva all’epoca circa 20 anni. Non era ancora Bullone, lo avrebbero chiamato così perché sapeva mettere mani ai motorini, alla macchine. Lavorava nei campi con mio padre Berardo, che faceva il contadino. Ma a mio fratello quella vita non piaceva. Ha sempre avuto manie di grandezza, gli piacevano i pantaloni firmati, le scarpe firmate. Mio padre, non poteva permetterselo.

Che ricordi ha di suo fratello, all’epoca?

Mi ricordo che sedeva a tavola con noi, si rideva, si scherzava. Siamo sette figli, dello stesso padre anche se di madri diverse. Vivevamo tutti insieme, solo Domenico viveva con la nonna paterna. Mi ricordo anche che mi sorrideva e mi diceva: “Lavami le scarpe, allora si usavano le Superga, che ti do 5mila lire”. E io gliele lavavo.  Ricordi cancellati. Non lo sapevamo quello che sarebbe diventato.

Quando avete cominciato a capire che Vito era diventato Bullone, il killer?

Quando morì Francesco Marrazza, nell’agosto ’92, lo chiamavano “Vocca aperta”.

Per quell’omicidio, suo fratello è stato condannato all’ergastolo in via definitiva. Eppure è l’unico assassinio di cui non ha mai riconosciuto d’essere l’autore.

La verità di quell’omicidio la conosce solo lui, mio fratello. C’era una guerra in corso a Sant’Elia, e Vito è diventato Vito allora. E’ cambiato l’atteggiamento: “Prima che mi ammazzino loro, li ammazzo io”, diceva. Mio padre immaginava che fosse nel contrabbando, non che fosse un killer. Quei sospetti sono diventati sempre più forti quando abbiamo cominciato a leggere le notizie sui giornali. Nel 1995 arrivò la botta, quando iniziò la sua latitanza. E poi l’inferno, con la notizia della strage della Grottella. Abbiamo pianto tanto, si disse subito che c’entrava lui. Mio padre non riusciva a crederci, non ci credeva nessuno di noi (6 dicembre 1999, le guardie giurate Luigi Pulli, Rodolfo Patera e Raffaele Arnesano scortano un portavalori della Velialpol, muoiono sotto le raffiche di kalashnikov e le bombe di un commando che riesce a rapinare due miliardi di lire. La Cassazione confermerà l’ergastolo per i tre autori dell’omicidio, Pasquale Tanisi, di Ruffano; Antonio Tarantini di Copertino; ed il pastore sardo Marcello Ladu, nativo di  Villagrande Strisaili (Nuoro). Pene più miti sarebbero state inflitte agli altri componenti del commando: 18 anni a Di Emidio grazie allo sconto di pena riservato ai collaboratori di giustizia; 27 e 30 anni ai cugini e pastori sardi Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau, ndr).

All’epoca suo fratello era latitante. La famiglia sapeva dove si trovava?

Sì, lo sapevamo. Io lo sapevo tramite i miei fratelli che non hanno mai smesso di avere contatti con lui, ancora oggi.

Perché non lo avete denunciato?

Perché era nostro fratello, per mio padre era ancora un figlio. E fino all’ultimo non voleva credere che davvero, suo figlio, potesse aver commesso cose di questo genere. Io, mio padre, piangevamo per lui, ma soprattutto per i parenti delle vittime. Ancora oggi, quando vedo i parenti in aula, come la figlia di Scarcia che ha saputo in aula le ultime parole di suo padre per lei, dette da Vito, piango con loro, di quell’orrore. Lo avrei capito solo dopo, troppo tardi, che fu un errore non denunciare mentre era latitante.  Ma fino a quando non ha cominciato a collaborare, rimaneva un dubbio residuo che è stato lui stesso a sciogliere.

Nel 2001 Vito Di Emidio viene arrestato.

Sì, dopo l’incidente. Apprendemmo la notizia da mia sorella Linda, era mezzanotte, l’una. Linda piangeva, al telefono, diceva che forse era morto. Forse sarebbe stato meglio, mi sono detta tante volte. Mio padre era diventato di ghiaccio. Mio figlio Giuseppe era piccolo, appena nato. Ricordo che mio padre, sul letto, mentre si infilava le calze e le scarpe per uscire e correre in ospedale, diceva come un robot: “Signore, fammelo vedere l’ultima volta. L’ultima volta”. Quando arrivammo in ospedale, io, i miei genitori e mio fratello William, c’erano elicotteri, carabinieri, l’inferno. Si capisce, avevano preso Bullone in persona. Mio padre gridava, davanti al maresciallo Garofalo, fatemi dire un’ultima parola, implorava. Lo stavano portando alla stanza 100. Quando lo incrociammo era tutto sfigurato, non riusciva nemmeno a parlare, balbettava, suoni incomprensibili. Non aveva un orecchio, non rispondeva. Era distrutto dall’incidente. Una delle grandi incognite è che abbia cominciato a collaborare due ore dopo, così dicono. Come ha potuto parlare? Non era in condizioni nemmeno di parlare. Ce lo chiediamo ancora oggi.

La scelta di collaborare da parte di suo fratello è dunque stato un errore?

No. Assolutamente no. Dico solo che non era in condizioni, fisiche, di parlare. E poi, che deve dire la verità. Non inventarsi le storie come quelle che hanno distrutto me e la mia famiglia.

Torniamo un attimo indietro. Come nascono i rapporti fra suo fratello e suo marito?

A Sant’Elia ci conoscevamo tutti. Erano tutti amici, Giuseppe, Vito, anche con Orlando (Pasquale Orlando detto Jo-jo, ndr). Mio marito e Giuliano Maglie sono andati a scuola insieme. Erano poveri, molti cresciuti senza padre, mi ricordo che rubavano i panni stesi nelle altre case per potersi vestire. Poi si sono messi a lavorare alle sigarette.

Facevano i contrabbandieri?

Sì.

Quanto guadagnavano?

200mila lire al giorno, più o meno.

Suo marito faceva il contrabbandiere nella squadra di suo fratello? Era, insomma, agli ordini di Bullone?

Era il cognato, lavoravano insieme. Ma per il resto, ognuno per la sua strada. Hanno fatto una rapina a Torre Santa Susanna insieme, era il 16 giugno 1996. Mio marito aveva appena finito di lavorare a Cerano, era rimasto senza lavoro a maggio. Fece la rapina a Torre con Vito, ma solo Giuseppe rimase ferito, me lo portò mio fratello Domenico, lo curammo a casa, ma le pallottole non sono mai state estratte, se le porta ancora dentro. Fu l’unico ad essere arrestato, qualche giorno dopo, e ha pagato con la giusta detenzione, dal 1996 al 2004. Il primogenito era già nato. Io me ne ero andata nel frattempo a Vicenza per lavoro, su consiglio dei servizi sociali di Sulmona dove mio marito era detenuto. Gli assistenti sociali mi consigliarono di cambiare città e vita. Me ne andai. La dottoressa Aloisi, il nome non me lo ricordo ancora, mi aiutò a trovare posto in un’impresa di pulizia. La signora Luciana, la titolare, la sento ancora oggi, una persona d’oro. Nel 2004, quando finì di scontare la pena, iniziò una nuova vita. E’ durata fino al maggio 2008. In un paese dove nessuno ci conosceva, dove nessuno aveva pregiudizi. Dove nessuno conosceva il nostro cognome.

Si è mai vergognata di quel cognome?

No, vergogna no. Perché è il cognome di mio padre, che lo conoscono tutti, è una persona onesta. Faceva il contadino, poi ha cominciato a fare il fruttivendolo, lo fa ancora oggi. Certo, ha lavorato anche lui con le sigarette, ma per poco. Quando la stagione dei raccolti andava male, e non sapeva come tirare a campare, con la famiglia, sette figli. Mio padre non ha mai avuto un centesimo da mio fratello. E non li ha mai voluti i soldi di Vito. Siamo rimasti poveri, mentre lui si arricchiva. La gente lo sa. Mio padre è sempre stato un grande lavoratore. E ha amato infinitamente quel figlio. La pecora nera della famiglia. No, non mi vergogno del mio nome. Mi addolora, ogni volta che lo pronuncio. Per tutto il male che significa per noi e per le famiglie delle vittime.

Quando, Vito Di Emidio ha cominciato a tirare in ballo il nome di suo marito come complice dei delitti?

Subito dopo che fu arrestato sapemmo che chiedeva aiuto a Giuseppe, ce lo mandava a dire tramite Domenico. Vito aveva già un ergastolo sulle spalle e non voleva farsi nemmeno un giorno di carcere, è sempre stato amante della libertà, della bella vita. E non si sarebbe fatto scrupolo, nemmeno di accusare mio padre se fosse stato necessario. La procura voleva dei riscontri perché altrimenti non lo avrebbero mai creduto. E pretendeva che Giuseppe si pentisse di cose che non aveva mai fatto. Mi diceva che mi avrebbero ammazzato i figli. Mi facevano intendere che sarebbe successo qualcosa di molto grave ai miei figli. Allora io dicevo a Giuseppe, mio marito, di fare quello che dicevano Vito e Domenico. Devi pensare solo ai bambini. Parla, io gli dicevo di collaborare. Anche di accollarsi cose false. Pur di salvare i bambini. E lui diceva che omicidi non se ne accollava perché non ne aveva fatti. Ho capito solo dopo perché gli chiedevano di collaborare. Con due pentiti in famiglia gli davano subito la protezione. Volevano scroccare la protezione. La mia mente era sempre offuscata dai miei figli, che mio marito non uscisse più dal carcere. In quel carcere li ho sentiti parlare dell’omicidio di Casale e Rosselli. Dicevano: “Salvatore è morto, nessuno può dirgli il contrario, nessuno può smentirci”.

Lei sostiene dunque che Vito Di Emidio chiedeva proprio al cognato di accollarsi la responsabilità omicidi che non aveva commesso, pur di dare sostegno alle proprie accuse e acquistare credibilità agli occhi della procura. Perché proprio a uno di famiglia? La stessa domanda le è stata rivolta, a lei e a suo padre in aula, anche dal presidente della Corte d’assise Gabriele Perna. Più volte. La vostra risposta è stata “perché poteva fidarsi solo dei famigliari”. Che vuol dire?

Con noi, che siamo la sua famiglia, Vito ha sempre usato la doppia arma del sangue e del ricatto. Perché da una parte solo una persona di famiglia può fare per te, quello che un estraneo non farebbe mai. Dall’altra c’era il ricatto: se affondo io, affondate tutti insieme a me.

In cambio cosa prometteva?

Soldi. Perché sapeva che noi non avevamo una lira. Trecento milioni di lire ci promise.

Come può, lei o suo marito dimostrare la propria innocenza rispetto ai delitti di cui Vito Di Emidio lo accusa? Suo marito ha un alibi per la sera dell’omicidio di Casale e Roselli?

Anche se dico che era a casa, lei mi crede? No, e non mi credono nemmeno i giudici. Era il 7 maggio 1996. Quella sera era a casa, come alle sette di ogni sera, era sorvegliato speciale, era sottoposto a controlli quotidiani. La polizia veniva a casa nostra tutte le sere, senza orario, di notte, di mattina presto. A sorpresa. Stiamo cercando i verbali della polizia che veniva a farci visita. Quelle ispezioni risultano anche dal libretto rosso, quello dove le forze dell’ordine mettono il timbro, ad ogni controllo. Lo abbiamo restituito alla fine della sorveglianza. Non abbiamo ancora rintracciato nemmeno quello, abbiamo chiesto all’avvocato di cercarlo in questura.

Nelle intercettazioni nel carcere di Sulmona, Giuseppe Tedesco dice a Domenico Di Emidio, a proposito del delitto Casale-Roselli: “li uccidemmo là”. Per la procura si tratta di una specie di confessione, lui non poteva sapere di essere intercettato.

Le intercettazioni scritte sono una cosa. L’ascolto è un altro. Era estate, era il 29 giugno 2001. Mio fratello Domenico, malgrado il caldo infernale che c’era a Sulmona, arrivò con un giubbotto estivo che non ha mai tolto, né prima né dopo il colloquio. Adesso siamo certi che avesse una cimice addosso. Stava dando istruzioni a mio marito sulla versione da fornire ai giudici. La storia inventata da Vito doveva coincidere con quella che mio marito, convertito alla collaborazione con la giustizia come loro volevano, malgrado la sua innocenza, doveva confessare. E si capisce che si tratta di istruzioni, anche dal fatto che Giuseppe non capisce bene quello che Domenico gli sta dicendo. Tipo, il dettaglio dell’auto. Che senso aveva bruciare la Thema se i corpi stavano nella Croma come lo stesso Domenico dice nelle intercettazioni? E poi c’è il dettaglio terribile dei salti sulle costole. Mio marito, lei lo ha visto in aula, è un omone, un gigante buono, dico io. I periti che hanno fatto l’autopsia, lo hanno detto anche in aula, hanno verificato che le fratture sulle costole sono incompatibili con quei salti. Vito si è inventato tutto, questa è un’altra prova. Gli autori sono altri.

E lei sembra sapere “chi”.

Io l’ho sentito dire da mio fratello Vito e da mio fratello Domenico in carcere, a Lecce. Ma quei colloqui non erano intercettati, sarebbero stati intercettati solo dopo, a Sulmona. Dissero che li uccisero con Salvatore Luperti, che infatti è morto. Come tutti i testimoni dei delitti di mio fratello. Questa versione è stata confermata anche da Salvatore Scimmietta (Marrazza, ndr). Domenico e Vito in carcere parlavano, e io lo so per questo. Io sentivo. Domenico, Linda e Vito mi mandarono a chiamare, mi dissero che Giuseppe doveva collaborare. Perché sarebbero usciti tutti e due, era il 2001.

Facciamo un altro passo indietro. Nel 1998, approfittando di un permesso premio concesso dal tribunale di sorveglianza concesso affinché potesse partecipare al matrimonio della sorella, suo marito scappa in Montenegro, per un breve periodo di latitanza prima d’essere arrestato. Durante quel periodo, nel 1999 sarà ucciso Maglie.

Sì, aveva le garanzie, e i soldi di mio fratello che aveva bisogno di qualcuno di cui fidarsi per i suoi affari con le sigarette. Mio marito, è stato il più grosso errore della sua vita, accettò. Anche perché noi ci morivamo di fame, non sapevamo più che fare. Io lo raggiunsi dopo, come le ho detto, con mio figlio mentre ero incinta del secondo.

Dunque la sua vita, la vita di Giuseppe Tedesco, da quel momento era nelle mani di Vito Di Emidio che gli garantiva soldi e libertà, anche se libertà da latitante.

No. Non era nelle sue mani. Si trattava solo di aiuto economico.

Grazie a quell’aiuto però, Vito Di Emidio era in credito, quindi in grado di ordinare un omicidio e di pretendere che fosse eseguito.

Quell’ordine mio marito non l’ha mai ricevuto. E’ tutta una storia inventata, la verità ha cominciato a dirla in aula, quando diceva di non ricordare. Quando ha accusato lo slavo.

Se Vito Di Emidio avesse ordinato a Giuseppe Tedesco, o qualunque altro, di eseguire un omicidio per lui o per suo conto, e questo qualcuno si fosse sottratto, cosa gli sarebbe successo?

Lo avrebbe ammazzato, perché lui impartiva ordini che non potevano essere trasgrediti.

Ma Giuseppe Tedesco è vivo. Dunque per i giudici può essere la prova provata che lui quegli ordini li ha eseguiti. In tutti e tre i delitti di cui accusa il cognato.

Vito quegli omicidi li ha commessi con altre persone. Mio marito non sarebbe vivo se avesse trasgredito degli ordini, è vero: semplicemente quegli ordini non li ha mai ricevuti. Lui non ha mai commesso quei delitti, mio marito non è mai stato imputato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ha sempre detto che io appartengo a mia madre e mio padre che mi hanno fatto. Mio marito non è un assassino.

Perché ha sempre creduto a suo marito? Non ha mai avuto un dubbio?

Mai. Mai. Lo avrei saputo. Lo avrei capito. E poi, Giuliano Maglie è uscito dalla mia casa con le sue gambe.

Questo cosa dimostra?

L’innocenza di mio marito.

Le ripeto una domanda che le ha ripetuto insistentemente il pm Alberto Santacatterina. Che giorno era quando Maglie, latitante in Montenegro e ospite a casa sua e di suo marito, uscì da quella casa come lei sostiene?

Non me lo ricordo.

Ma lei ricorda tutte le date.

Quella non la ricordo. Non posso mentire, non me la ricordo. Io ero in casa, che era innanzitutto un condominio e non una villa come dice Vito. Le persone che abitavano in quel condominio potrebbero testimoniare, ho dato i nomi e i cognomi, spero che il tribunale accetti. Io sono la moglie, non mi credono, lo capisco. Ma che interpellino queste persone allora. Perché loro dovrebbero mentire? Poi, mio fratello dice che Maglie fu ucciso in casa mia. Da dove io non mi muovevo mai. Avevo un bimbo piccolo, aveva sei anni. Ed ero incinta del secondogenito. Se quello che dice mio fratello fosse vero, l’omicidio sarebbe avvenuto sotto i miei occhi e quelli del bambino. Qualcuno avrebbe sentito gli spari. La verità è che in quella casa non è mai avvenuto nulla, e mio marito non ha mai ucciso nessuno.

Nel carcere di Sulmona vengono intercettati dei colloqui, sempre fra lei, suo padre e suo fratello Domenico, in cui si parla del corpo di Maglie. Tedesco dice, “che ne sai lui dove sta il corpo”. L’interpretazione della procura è univoca: Tedesco ha eseguito l’omicidio, e ha occultato il corpo tacendo il luogo dove è stato sepolto allo stesso Di Emidio, il mandante del quale evidentemente non si fida.

Mio marito, come ha detto anche in aula, non ha un motivo diverso dalla sua innocenza per non ammettere quello che gli si chiede di ammettere. Se si ostina a farsi il carcere, a rischiare l’ergastolo, anzi tre ergastoli, è perché quel delitto così come gli altri due, lui non li ha commessi. Se collaborasse, come continuano ancora oggi a chiedere i miei fratelli, sarebbe un uomo libero. E noi, la sua famiglia, saremmo liberi con lui da questo incubo. La faccio io una domanda: perché Vito ha aspettato due anni, dal 2001 al 2003, per rivelare il luogo dove si trovava il corpo di Maglie? Perché sperava che Giuseppe, nel frattempo, si pentisse. Ma mio marito non lo farà mai.

Perché è innocente o perché è un uomo d’onore?

Onore? Noi onore non ne abbiamo più. Cos’è l’onore? Uscire tutti i giorni sui giornali, dove c’è scritto che ha ammazzato quello e ha ammazzato questo? Queste cose orribili per le quali i miei figli devono vergognarsi quando vanno a scuola? O per le quali io ho perso il posto di lavoro più di qualche volta? Noi non abbiamo più niente da perdere.

Come vive, lei, oggi?

Lavoro con un’impresa di pulizia, la sera in un grande ipermercato, la notte pulizie delle scale. Quattordici ore di lavoro al giorno, vivo da sola con i miei figli. E vado avanti anche grazie ai miei genitori. Mio padre ha ipotecato la sua pensione per permettermi di avere dei prestiti dalle banche, per pagare gli avvocati.

Cosa spera dal futuro?

Quello che sogno, a occhi aperti, è di sposarmi con lui in chiesa quando uscirà dal carcere, con la carrozza. I miei figli saranno i testimoni del mio matrimonio come sono stati testimoni di tutta la mia vita.

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