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Venerdì, 26 Aprile 2024
Cronaca

"Fatemi ciò che volete, ma sono cambiato: non sono più il Pasimeni di un tempo"

BRINDISI - “Potete perseguitarmi, potete fare quello che volete. Io sono tranquillo con la mia coscienza: il passato per me è morto e sepolto. La prego signor pubblico ministero, non mi guardi come il Massimo Pasimeni che ero, guardi quello che sono al presente”, più o meno così, in un italiano claudicante ma comprensibile, ha parlato il boss della Scu che, secondo il pentito Ercole Penna, non ha mai mollato lo scettro nel comando. Prima facendo atto d’abiura nei confronti del boss dei boss Pino Rogoli, quindi fondando la Sacra corona libera, dunque reggendo le fila del comando al vertice dei Mesagnesi ininterrottamente per i tredici lunghi anni trascorsi in cella dal 1993 alla scarcerazione dell’agosto del 2006. E ancora un nuovo arresto il 2 febbraio 2008 in aula subito la sentenza della Corte d’Assise di Brindisi, che lo condannava per l’omicidio di Giovanni Goffredo confessato dal compare Massimo D’Amico e il tentato omicidio di Benito Nisi, e poi la miracolosa liberazione del 16 luglio 2008, per effetto della sentenza definitiva che dichiarava scaduti i termini di custodia cautelare, scrollandogli di dosso una condanna al carcere a vita.

BRINDISI - “Potete perseguitarmi, potete fare quello che volete. Io sono tranquillo con la mia coscienza: il passato per me è morto e sepolto. La prego signor pubblico ministero, non mi guardi come il Massimo Pasimeni che ero, guardi quello che sono al presente”, più o meno così, in un italiano claudicante ma comprensibile, ha parlato il boss della Scu che, secondo il pentito Ercole Penna, non ha mai mollato lo scettro nel comando. Prima facendo atto d’abiura nei confronti del boss dei boss Pino Rogoli, quindi fondando la Sacra corona libera, dunque reggendo le fila del comando al vertice dei Mesagnesi ininterrottamente per i tredici lunghi anni trascorsi in cella dal 1993 alla scarcerazione dell’agosto del 2006. E ancora un nuovo arresto il 2 febbraio 2008 in aula subito la sentenza della Corte d’Assise di Brindisi, che lo condannava per l’omicidio di Giovanni Goffredo confessato dal compare Massimo D’Amico e il tentato omicidio di Benito Nisi, e poi la miracolosa liberazione del 16 luglio 2008, per effetto della sentenza definitiva che dichiarava scaduti i termini di custodia cautelare, scrollandogli di dosso una condanna al carcere a vita.

Il miracolo annunciato questa mattina in aula di fronte alla corte d’assise presieduta dal giudice Gabriele Perna, supera di gran lunga tutti gli altri, quelli compiuti in punta di diritto dall’avvocato difensore Marcello Falcone, penalista assurto di recente alla presidenza della Camera penale. Pasimeni si dichiara redento. A dispetto dei compagni di ventura che lo dipingono come boss impenitente. Secondo D’Amico, il primo che ha inaugurato la serie, poi secondo Penna, e infine secondo il nipote Giuseppe Panico, Pasimeni quello era e quello resta. Il processo in corso è scaturito dall’operazione Codice Da Vinci, messa a segno il 25 febbraio dello scorso anno per mano del commissariato di polizia di Mesagne, che eseguì l’ordine di cattura richiesto e ottenuto dal pm Giorgio Lino Bruno. Fu il nipotino ribelle Giuseppe Panico a confessare le vessazioni, vere o presunte, dello zio.

Gli ordini disseminati al branco, fra cui la bella moglie Gioconda Giannuzzo, il giro di estorsioni ai danni della cantina Due Palme, del rivenditore d’auto di San Michele Salentino Donato Apruzzi, i magheggi societari, le imprese intestate a prestanome per sottrarsi al giogo dello Stato e delle leggi antimafia. Tutto falso. Secondo Pasimeni, il nipote agì per vendetta annunciata contro lo zio che tentava a suon di schiaffoni di farlo uscire dalla dipendenza da cocaina. “L’ho fatto per mia sorella Graziella, mi implorò di aiutarlo, di farlo venire fuori dallo schifo nel quale s’era cacciato. Truffe, debiti, per mantenere il vizio”, ha detto il boss. Schiaffi e calci a parte, come interviene l’opera di liberazione dello zio?

Pasimeni fa leva sulle sue vecchie conoscenze, Apruzzi è una di quelle, cliente obbligato. Gli chiede di cedere al nipote un certo numero di auto, affinchè Panico possa mettere su una rivendita per conto suo, ma chiede al genero Carmine Campana (26 anni) di seguire il ragazzo scapestrato, non si fida. “Io nel frattempo vivevo come potevo. Ho chiesto aiuto al Comune di Mesagne, al sindaco Mario Sconosciuto. Poi c’è stata una signora, che lavorava per la cooperativa del cimitero, che mi ha permesso di lavorare lì, al camposanto. Precavo, sprecavo (tumulavo e estumulavo le salme, ndr), pulivo, imbiancavo, ogni tanto qualcuno mi dava delle mance”. Insomma, un altro uomo. Panico invece, forse lui chiedeva il pizzo, spacciandosi emissario dello zio del tutto ignaro, per lo meno questo sostiene il boss redento, e accumula debiti. Un sacco di debiti, lasciando a secco i conti correnti con i quali avrebbe dovuto pagare le auto acquistate da Apruzzi che però, malgrado tutto, continua a concedere credito. Stranamente.

Dopo il boss ha parlato lei, la signora del boss, Gioconda Giannuzzo. Capelli raccolti a coda di cavallo, alta, tacchi bianchi a spillo, spolverino blu e trucco pesante. Una delle donne più avvenenti e fedeli  della storia parallela della Scu. Aveva un sogno, Gioconda, quello di una vita normale, lo ha confessato in aula mentre il pm Bruno scuoteva la testa, per lo meno scettico. Sognava di aprire una yogurteria fidando sul prestito d’onore, e nel frattempo s’adattava a fare mille lavoretti: la cameriera, la donna delle pulizie a ore, l’assistenza agli anziani,  a stirare i panni in casa per i clienti del momento, e cose così. Perfino lavoretti di bricolage all’uncinetto. “Ho fatto di tutto per mantenere mio marito, signor giudice, nei quindici lunghi anni di carcere. Per lui ho voluto sempre il meglio”. Nel meglio, Gioconda Giannuzzo si informa, è compreso l’avvocato di grido, il legale del momento, Niccolò Ghedini in persona. “Me lo consigliarono – ha detto la donna – mi dissero che  era l’avvocato di Berlusconi, ho voluto che fosse anche l’avvocato di mio marito”. Con i soldini centellinati fra un lavoretto e l’altro la signora Pasimeni impugna il telefono, chiama allo studio legale Ghedini, a Padova, chiede e ottiene di parlare con l’onorevole.

“Ma io non voglio parlare con l’onorevole, voglio parlare con l’avvocato”, non sa che nel legale del premier i titoli si sommano. Chiarito l’equivoco, l’incontro finalmente avviene, de visu, in un albergo di fronte alla Camera dei Deputati. Privilegio concesso a pochi. Ghedini studia le carte e ammette che “il nostro avvocato Falcone aveva fatto tutto quello che era possibile fare. Ma che se ritenevamo lui ci avrebbe assistito lo stesso, mi chiese cinquemila euro”. Il gioco valeva la candela. Il processo in cui interviene l’avvocato del premier è quello in cui finì alla sbarra l’intero clan Campana, mesagnesi pure loro, braccio armato e operativo secondo l’accusa, della mafia nostrana in fase di riorganizzazione, correva l’anno 2000. Le sentenze di primo e secondo grado avevano avallato senza sbavature l’impianto accusatorio del sostituto procuratore Vittorio Meloni, secondo cui Pasimeni insieme a Giuseppe Gagliardi, dal carcere, reggeva le fila del traffico di tabacchi lavorati esteri e droga in mano ai Campana, pretendendo il quantum che si deve, insieme al rispetto, al capo.

Tutto falso, aveva gridato alla Suprema corte la difesa corale Ghedini - Falcone, per una motivazione su tutte: il ruolo attribuito a Pasimeni emergeva dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia riferite a “fatti anteriori a quelli giudicati dal tribunale di Brindisi”. Né l’affermazione di responsabilità poteva essere giustificata, proseguiva il collegio presieduto dal giudice Giovanni Silvestri, dalla conversazione telefonica del 30 ottobre 2001, fra Francesco e Antonio Campana, Carlo Gagliardi e Massimo Delle Grottaglie che parlavano di destinare “pensieri” ai “quattro grandi”, poi diventati due e indicati come “P” e “M”. Dove, per gli inquirenti, P stava per Piccolo dente e M per Marocchino. Identificazione “intuibile” e “non provata”. Le intuizioni senza prove, in soldoni, valgono quanto sapeva lo scorato poeta di periferia. La difesa a quattro mani ha partorito la sentenza liberatoria, l’ennesima. Per quanto la scelta della griffe Ghedini, non sia stata a gratis. Oltre alla parcella, una tantum, spettante al legale, la rinuncia per sempre al gratuito patrocinio.  Vuoi mettere la libertà?

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